Ben ritrovati cari amici di Gessetti! Siamo pronti a ripartire con un numero tutto dedicato al benessere a scuola:
leggendo o ascoltando l’Appello rifletteremo sul “rimettere l’umano” nel processo educativo
nell’ora di dettato troveremo la parola “presentarsi”
in questo numero ben due ore di laboratorio su malessere/benessere scolastico e sulla lezione significativa
il consueto intervallo con consigli interessanti
ed infine le frasi alla lavagna!
Vi auguriamo una buona lettura e un buon ascolto per gli amici del podcast!
Avvertenze per il nuovo anno
“Una scuola dove la vita si annoia insegna solo la barbarie” (R. Vaneigem, Avertissement aux écoliers et lycéens, 1995)
In francese esiste un’espressione che amo molto: faire l’école buissonnière. In senso lato, essa in italiano viene resa come “marinare la scuola”, però a livello letterale significa “frequentare la scuola dei campi (lett. dei cespugli), la scuola clandestina”.
[ho scoperto esiste anche un film, con il medesimo titolo, reso in italiano (!) come School of Life, del 2017]
Mi è tornata alla memoria quella locuzione leggendo il libro - poco più di un pamphlet - di Raoul Vaneigem, che purtroppo non mi risulta essere stato tradotto in italiano, il cui titolo suonerebbe più o meno come “Avvertenze per gli studenti”. Il testo - che è del 1995, nella sua prima stesura - è una ferocissima critica contro il sistema di istruzione transalpino, accusato di sottostare alle pressioni economiche e di inseguire esclusivamente una logica performativa. L’autore, in contrapposizione a tale deriva, urla lo spostamento verso una scuola del sapere, della creazione, del fiorire e del benessere.
I toni dell’autore di questo attacco frontale al sistema di istruzione francese - si legga il suo “non ci sono studenti stupidi, esistono solo educazioni imbecilli”, tanto per dire… - forse impedirono di essere accolto allo spirito che ne stava alla base.
Anche ‘di qua dalle Alpi’ ci stiamo interrogando da tempo sulla noia, il disincanto e la rassegnazione che l’occhio attento del docente non può mancare di cogliere sia tra i colleghi, nelle sale professori, che tra gli studenti e le famiglie.
È possibile (re)incantare la scuola? Farne luogo di fioritura individuale e sociale? Vaneigem, a ragione, associa la fioritura individuale allo sviluppo di una piena e salda democrazia.
Che cosa significa “rimettere l’umano nel cuore del processo educativo”?
Non posso fare a meno di osservare che la data di pubblicazione di quelle parole rivoluzionarie - da molti in Francia, benché l’autore sia belga, sin da subito tacciate di edonismo vetero-sessantottino - si situa poco prima dell’irruzione sulla scena educativa e filosofica del pensiero di Edgar Morin… Coincidenze?
Penso che abbiamo tutti noi la grande occasione di dimostrare che una scuola ‘al servizio della persona’ possa non scadere nella pantomima del villaggio-vacanze, dove il divertimento è d’obbligo.
Essere, come singoli e autonomi professionisti e come elementi di un sistema più vasto, orientati alla persona non significa propagandare una scuola ‘zero regole e basse richieste’. Guardare allo studente - e al docente, non lo dimentichiamo mai! - riconoscendo in lui una sostanza che va oltre a quanto può produrre non significa rifiutare di valutare la sua opera: significa valorizzare quella sostanza.
Il testo di Vaneigem è stato decisamente ridicolizzato dai suoi detrattori per lo stile (il tono, appunto…) utopistico che esprime. È vero che l’autore si limita ad un attacco frontale - e francamente condivisibile - di tutto ciò che non funziona(va) nella scuola di stampo francofono, senza tuttavia proporre azioni concrete che avrebbero potuto dirigerla verso altri orizzonti. Azioni che, invece, descrisse nel dettaglio della sua filosofia Edgar Morin, soltanto qualche anno dopo. Sebbene nemmeno lui ottenne ascolto da parte degli organi legislativi…
Che i tempi, oggi, siano maturi per una proposta che sappia conciliare la valorizzazione dell’umano nella scuola, senza abdicare al ruolo di compagnia di adulti seri e coinvolti nel bene del giovane?
Simona Butò - @epea.pteroenta
Una parola sottovalutata: PRE-SEN-TAR-SI
“Quando smetterò di essere emozionato il primo giorno di scuola, capirò che devo smettere di insegnare”: me lo disse il mio professore di Italiano del liceo, a liceo ormai concluso, durante uno dei pranzi che avevamo l’abitudine di consumare insieme, di tanto in tanto, in Via Zamboni a Bologna, a pochi passi dalla facoltà di Lettere. Quella frase non mi ha mai lasciata ed effettivamente, una volta diventata insegnante, mi sono sempre sentita eccitata al pensiero del primo giorno di scuola.
Con il tempo ho capito che quelle emozioni non vanno soffocate, ma nemmeno tradotte in mirabolanti performance ad effetto per impressionare una nuova classe. Credo che le emozioni dei primi giorni, invece, possano essere incanalate in un gesto semplice e preziosissimo: presentarsi.
Presentarsi è un verbo ricco, perché ha almeno due significati principali e perché ha il potere di aumentare la realtà. Il primo significato - quasi banale, ma solo apparentemente - è proprio legato all’accoglienza, al fare conoscenza, e racconta ciò che accade in ogni aula scolastica intorno al 15 di settembre. Ma quando io mi presento, che sia una studentessa oppure un’insegnante, compio il prodigio della realtà aumentata, perché l’etimologia ci dice che, presentandomi, “prae sum”: sono innanzi. Mi faccio presente davanti a te: nonostante ci fossi già, fisicamente, acquisto davvero sostanza nel momento in cui agisco un saluto e uno sguardo, ma soprattutto quando dico chi sono.
Saper dire “chi sono” è un obiettivo molto alto, che non si esaurisce nel corso di un anno scolastico e forse, in una vita, non si raggiunge mai davvero, ma il primo giorno di scuola credo valga comunque la pena di cominciare a dire chi siamo, con i pochi strumenti che abbiamo a disposizione. È necessario presentarsi ed è importante farlo “bene”.
Insegno da dieci anni. Ho ancora molto da imparare, ma ho anche avuto modo di riflettere sulla mia esperienza maturata sin qui. Ad oggi, come docente, credo che presentarmi bene alla classe il primo giorno di scuola significhi questo: scandire bene il mio nome e il mio cognome, ripeterli più volte, scriverli alla lavagna e tenerli in vista il tempo sufficiente perché poi, nei corridoi, durante l’intervallo, alla domanda “Chi hai tu di Italiano?”, gli studenti rispondano il meno possibile “Una con i capelli lunghi”, ma più frequentemente “La Orsi”. Non è solo questione di forma: è cominciare, sin dai primi momenti insieme, a farsi sostanza lungo il loro viaggio.
Presentarsi bene significa poi impegnarsi a memorizzare da subito, correttamente, i loro nomi e cognomi: esercitarsi a pronunciarli se sono nomi difficili, chiedere dove cade l’accento, spingersi a chiedere la traduzione di un nome straniero se ci sembra di cogliere disponibilità ad aprirsi.
Presentarsi bene, infine (ma l’elenco potrebbe essere molto più lungo), significa sfruttare al massimo quei silenzi rarissimi dei primi giorni, dati dalla soggezione e dalla confidenza ancora scarsa, destinati a diminuire con il passare delle settimane: mai come nei primi giorni di scuola avremo classi silenziose in ascolto, impegnate a studiarci con minuzia scientifica. Che fare, allora? Semplice: dire cose di valore. L’ho capito negli ultimi anni: illustrare il programma nel dettaglio, spiegare il funzionamento delle interrogazioni o elencare le regole di convivenza sono pratiche importanti, sì, ma forse non meritano quel silenzio potentissimo dei primi momenti insieme. Forse, quel silenzio fatto di interrogativi, paure e pensieri pindarici, merita di riempirsi di frasi che dicano chi siamo: “Questo mestiere mi piace moltissimo”, “Amo la mia materia e amo trasmetterla ai ragazzi”, “Sono molto curiosa di conoscervi”, lasciano un segno più tangibile di qualsiasi elenco di materiale. Teniamolo presente.
Cominciando questo flusso di pensieri ho detto che il verbo “presentarsi” ha anche un altro significato comune: è quello di “arrivare” in un luogo o al cospetto di qualcuno. “Presentarsi a un appuntamento”. Il primo giorno di scuola - e ogni giorno di scuola - è anche questo: lasciare la propria casa e varcare la soglia di un’altra casa, quella dell’incertezza sfidante, della crescita e del sapere. Sappiamo bene che non tutti gli studenti e le studentesse, purtroppo, continueranno a presentarsi all’appuntamento ogni mattina: la dispersione scolastica esiste. Ecco: io credo che, come membri della scuola, per tentare di rimanere il più possibile nel futuro dei nostri ragazzi, sia urgente cominciare, sin dal primo momento, a entrare nel loro presente. Presentarci, farci presenti, tenerli presenti, a partire dai piccoli gesti per poi accompagnarci nelle grandi avventure.
Eleonora Orsi - @nora_orsi
Essere corpi tra i banchi di scuola
Stiamo bene a scuola? Che cosa vuol dire stare bene a scuola? Secondo le ricerche più o meno recenti a scuola stanno male i ragazzi e stanno male i docenti.
Daniela Lucangeli ci informa: “La ricerca condotta sul malessere scolastico si inserisce tristemente in un panorama mondiale in cui si assiste a un aumento della frequenza dei disturbi psicopatologici in età evolutiva. Dati forniti dall’Organizzazione Mondiale della Sanità nel 2004 evidenziano che, nel mondo, 121 milioni di persone soffrono di disturbi psichiatrici, e il 10-20% di esse sono minori (Daniela Lucangeli, Cinque lezioni leggere sull’emozione di apprendere, pag. 73 ).
La Lucangeli riporta i dati della ricerca ministeriale condotta sullo stato di benessere a scuola: il 73% dei ragazzi dichiara di stare male a scuola, e di questi il 60% sta male stabilmente: cioè significa che questi studenti non hanno ricordo di essere mai stati bene a scuola (Daniela Lucangeli, Cinque lezioni leggere sull’emozione di apprendere, pag. 69).
Ma attenzione: tra le diagnosi di inidoneità lavorativa dei docenti per motivi di salute, le diagnosi psichiatriche sono schizzate dal 31 all’82% in 30 anni.
Entrare in classe significa rendersi conto che la situazione è anche peggiore. Appena alzo gli occhi dal libro, vedo innalzarsi sui banchi muri di sofferenza. L’impressione di sentirmi respinta (me e la mia lezione) è diventata quasi costante. La sgradevole sensazione di non poter cambiare le sorti si insinua strisciante tra le parole sui grandi della letteratura. L’impotenza schiaccia i docenti e questo provoca quel mix letale di rabbia, risentimento e delusione che fa aumentare il malessere e la sofferenza: “L’insegnante è posto in una gabbia da nevrosi indotta dove qualsiasi percorso la porta ad un incremento di stress e a rischi personali e collettivi”, spiega lo psichiatra Gianfranco Buffardi (G.Buffardi, S. Vitagliano, Insegnanti si diventa).
Quindi ci arrendiamo? Fare domande ha sempre significato offrire la possibilità di una risposta. Che arriverà con il tempo. Perciò no, non mi rassegno.
La mia esperienza richiede almeno un abbozzo, un tentativo, un’ipotesi di lavoro. Sicuramente non mi metterei a competere con i social. Si tratta di altro. I bambini e i ragazzi imparano con il corpo, sono “fisici”, perché è il primo livello di consapevolezza. Capisco che esisto perché ho un corpo. E attraverso il corpo entro in relazione. Le parole che pronunciamo hanno un corpo, provengono da esse e ci permettono di comprendere e apprendere concetti nuovi sulla base della nostra esperienza corporea. La relazione educativa è una realtà corporea, fisica, e non può essere diversamente in quanto rientra nella categoria di “relazione”. Daniela Lucangeli spesso richiama i docenti all’importanza della relazione, che ha le caratteristiche “fisiche” dello sguardo, della voce, della carezza e del tocco (Daniela Lucangeli, Cinque lezioni leggere sull’emozione di apprendere, pag 23 e segg.). In questo caso, la Lucangeli parla di “interruttori emozionali” che si caratterizzano proprio per quei gesti o comportamenti che attraverso la vicinanza fisica consentono una vicinanza al contenuto dell’apprendimento. Una spiegazione di questo la forniscono Georg Lakoff e Marc Johnson: la metafora della vicinanza ci fa pensare che “maggiore è la vicinanza al contenitore, maggiore è la vicinanza al contenuto”. Il docente è il contenitore (altro concetto metaforico), di conseguenza maggiore è la mia vicinanza al docente maggiore è la mia comprensione della lezione.
L’apprendimento passa attraverso una relazione, il che significa che non può prescindere da una corporeità in cui si è insieme. Migliore è la relazione, migliore sarà l’apprendimento. Di ciò, ci tengo a sottolinearlo, i docenti sono pienamente convinti e consapevoli.
Ma quando lo studente è irraggiungibile, barricato dietro al suo muro di sofferenza, come si fa? Non si può guardare una sedia vuota. Per stabilire la relazione, parto sempre dal fatto che quello studente così assente e lontano occupa uno spazio, ha un corpo e se si può avvicinare una penna o dare una mano, si può instaurare una relazione. Forse lui o lei si sentirà invisibile, ma fisicamente ha una concretezza, una corporeità che non posso dare per scontata.
E allora ti guardo, ti parlo, ti chiedo la penna o ti consegno foglio. Basta il tuo corpo per esserci, prima o poi ne avrai consapevolezza e allora continueremo il nostro dialogo.
Simona Sessini - @2kgdiscuola
Non (solo) trasmettere, ma far sedimentare: un esempio di lezione significativa con un paratesto digitale
Gli anglofoni parlano di struggle per riferirsi a quei momenti in cui, di fronte a una difficoltà, si prova di tutto per superarla – e si fa fatica. Il mio struggle, da docente di Lettere alla secondaria di primo grado, riguarda spesso le lezioni di storia, specie quelle che prevedono l’introduzione di concetti complessi, legati al contesto socio-culturale o al pensiero politico e filosofico. Siccome si tratta di mattoncini di sapere imprescindibili, mi sono chiesta in che modo intervenire per facilitare a ragazze e ragazzi l’accesso a quei mondi, garantendo una forma di apprendimento significativo vicina alle teorie di David Ausubel.
Inizio maggio, classe seconda. Sonnacchiosa, com’è normale quando la fine delle lezioni è ormai vicina. Il megalodonte della conoscenza da affrontare durante la mattinata riguarda il contesto politico, economico e sociale che ha preceduto e accompagnato gli eventi della Rivoluzione Francese. Alunni e alunne sono già abili nell’utilizzo dei notebook in dotazione alla scuola, così come nel lavoro simultaneo su uno stesso documento condiviso, in questo caso una Google Jamboard.
A casa ho preparato l’attività individuando i microargomenti del nostro argomento macro: situazione economica, condizione sociale, organizzazione politica. Per ciascuno ho predisposto una slide sulla lavagna digitale, dove ho inserito una serie di dati, grafici o immagini che ritengo particolarmente rilevanti, uno per ogni ambito (trovi un esempio nell’immagine, con i contributi della II A). L’idea è creare un paratesto iconico a supporto di quanto ascoltato durante la spiegazione o letto dal manuale. Un paratesto da interrogare e su cui ragionare insieme, a coppie o in piccolo gruppo, per cogliere i rimandi ai concetti della nostra lezione.
Consegna: al termine della spiegazione, ogni gruppetto dovrà sfogliare con il proprio notebook le diapositive della Jamboard e soffermarsi sulle fonti di volta in volta incontrate, cogliendo le informazioni che ognuna offre rispetto all’argomento di riferimento. In seguito, ogni gruppo sceglie una parola-chiave da abbinare a quel paratesto e la annota su uno dei post-it virtuali della lavagna. Le parole scelte dovranno permettere a chi legge la diapositiva di capire come quel dato o quell’immagine si ricolleghino all’argomento centrale. In fase di progettazione va prestata particolare attenzione ai dati che si decide di mostrare. Le fonti scelte saranno tanto più efficaci quanto maggiori saranno gli sforzi interpretativi che la classe sarà chiamata a svolgere per decodificare il dato di turno e collocarlo nella giusta cornice di senso. Lo stesso vale per la discussione in plenaria che segue, quando ogni gruppo dovrà cercare di dimostrare quanto la propria scelta sia più calzante rispetto a quella fatta dagli altri.
Oltre ad assicurare collaborazione e un proficuo dibattito tra compagni, credo che il valore di attività come queste risieda nella possibilità di ritagliare all’interno della nostra lezione un piccolo spazio dedicato al ragionamento, all’interpretazione e alla possibilità di fare collegamenti, anche in presenza di argomenti particolarmente difficili da digerire a 12 o 13 anni. Perché, come ricorda Ausubel, bisogna veicolare i nostri sforzi verso la creazione di occasioni che facciano sedimentare le conoscenze e che non si limitino al semplice trasmetterle.
«Il pericolo maggiore dell’apprendimento ricettivo non è tanto il fatto che l’allievo può adottare un approccio decisamente meccanico, ma piuttosto che illuda se stesso credendo di avere realmente compreso i significati precisi mentre ha afferrato soltanto un vago e confuso verbalismo inutile. Non è che non voglia capire, ma piuttosto che trascura la necessaria capacità autocritica ed è poco propenso a compiere uno sforzo attivo nell’accostare il materiale, nel considerarlo da diversi punti di vista, nel conciliarlo o nell’integrarlo con i dati attinenti o contrastanti e nel riformularlo dal punto di vista dei propri riferimenti personali, [illudendo] in tal modo se stesso e gli altri che egli capisca veramente ciò che in realtà non capisce».
(D. P. Ausubel, Educazione e processi cognitivi: guida psicologica per gli insegnanti, 1978, in A. Capuano et alii, Apprendimento significativo, 2018, Lattes, Torino, p. 10)
Marcella - @spincifrin
Gessetti consiglia…corsi di formazione!
In vista dell' inizio del nuovo anno scolastico, oggi voglio consigliarvi i laboratori dedicati alla formazione dei docenti, proposti dai Future Labs (qui trovate alcune delle sedi dislocate in tutta Italia). Questi corsi approfondiscono metodologie didattiche da applicare in campo digitale, mediante anche l'utilizzo di software innovativi. Possono essere sia in modalità sincrona che in presenza e le tematiche variano da ciascuna sede polo.
Io ne ho seguiti molti nella sede di Torino dell'IIS Amedeo Avogadro e recentemente uno dedicato alle STEM col polo di Genova. Personalmente ho trovato sempre i corsi molto interessanti e pratici. Se non conoscevate già questi laboratori, vi consiglio di dare un'occhiata!
Emanuela Chiodo - @lascienzatraibanchi
“Il rispetto costituisce il fondamento della sfera pubblica. Dove esso viene meno, quest’ultima si corrompe. La decadenza della sfera pubblica e la crescente mancanza di rispetto si determinano a vicenda. La sfera pubblica presuppone, tra le altre cose, che si distolga rispettosamente lo sguardo dal privato: il prendere le distanze è costitutivo dello spazio pubblico” (B.-C. Han, Nello sciame)
È facilmente intuibile perché il numero di Settembre di Gessetti dedichi le sue Frasi al tema del rispetto. Ci dicono, in questi giorni annichiliti dalle vicende di cronaca, che la scuola abbia ricevuto una solenne nuova investitura ad ente che riesca ad educare al rispetto. Quella medesima scuola che tanti vorrebbero formalizzata in villaggio-vacanze per la cura estiva dei pargoli, quella vista come il facile rifugio per professionisti disillusi, terreno di esposizione di logiche di potere individualistiche. Proprio quella, sì.
Ciò non toglie che chi la scuola la fa possa lasciarsi ulteriormente interrogare dalle possibilità di lavorare su che cosa significhi rispettare un altro essere umano. Educare sarebbe il verbo più adeguato, s’intende, ma è un verbo che si coniuga solamente alla prima persona plurale; in una pluralità che esonda dalla scuola e irriga tutti i luoghi della democrazia. La famiglia, in primis, ovviamente.
Molti tra noi, nelle giornate di fine agosto, si sono infatti interrogati sulla possibilità offerta dall’insegnamento dell’Educazione Civica, a questo riguardo. Sarebbe un’occasione imperdibile di dimostrare nel concreto che la programmazione è al servizio della persona, dello studente e della società (in questo ordine rigoroso che muove dal particolare al generale). Io mi auguro che oggi questo sia a tema in tutti i collegi dei docenti; mi auguro che le riflessioni che abbiamo compiuto trovino il coraggio e il consenso necessari per diventare azioni educative forti, di quelle che lasciano la loro impronta per la vita. Per tutte quelle vite che sia necessario ridestare ad occhi, sul mondo e sugli altri, intrisi di quell’indispensabile riguardo, atto distaccato e che sappia mettere tale distanza tra sé e tutto ciò che è spettacolo.
Simona Butò - @epea.pteroenta
Abbiamo pensato al nome Gessetti perché ci è sembrato l'oggetto più adatto a rappresentare i molteplici colori che compongono la realtà della scuola. La scuola che ci piace è infatti variopinta come la vita. Anzi, a scuola c'è vita: ci sono soffitti di domande, risate e anche sogni. Ci sono pareti tappezzate di confronto, incontri e, a volte, delusioni. Ci sono lavagne di cose nuove da imparare e di abitudini da reinventare.
Ci accomuna l'amore per la scuola come luogo di scoperta e di apprendimento, di crescita e di civiltà per tutti.
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